Il 14 settembre 2016, l’Italia è diventata la seconda nazione europea a dotarsi di una legge contro lo spreco alimentare dopo che la Francia ha approvato la sua a febbraio 2016. Anche Spagna e Gran Bretagna dibattono da tempo sul fenomeno. I numeri abbondano ma non raccontano l’intera storia. Per approfondire il tema intervistiamo a Berlino Anke Klitzing, studiosa e scrittrice di cibo, popoli e luoghi.

Gli esperti dicono che l’umanità non sia mai stata nutrita meglio di così, in termini calorici. Perché dunque preoccuparsi di spreco alimentare?

Calorie e nutrimento non sono la stessa cosa: le patologie causate dalla qualità e quantità delle calorie che assumiamo sono notevoli. Lo spreco, peraltro, non è solo un problema di sicurezza alimentare, ma significa perdere nutrimento, acqua, suolo, lavoro, energia e denaro.

Secondo il Ministero dell’Agricoltura spagnolo, le famiglie buttano circa un terzo della frutta comprata, ma raramente gettano surgelati e lattine. Alcuni hanno attribuito la responsabilità al cambio demografico: più piccolo il nucleo familiare, maggiore lo spreco (effettivamente, non solo in Spagna). Bisogna eliminare i single?

No, prima di tutto c’è da chiarire che la cosiddetta “catena” alimentare del sistema industriale predominante oggi ha lo spreco programmato in tutti i suoi passaggi. Questo aspetto è spesso trascurato. I due problemi principali che vedo sono: la linearità della catena, e la mancata condivisione delle responsabilità. Già a monte, il contadino è obbligato a comprare nuovi semi ogni anno, e a sovraprodurre per contrastare le perdite dovute a standard estetici, di impacchettamento, o a preferenze per particolari tagli di carne. Ne parlo sull’ultimo numero di Slow Food Magazine Germania.

A livello individuale abbiamo bisogno di una nuova economia domestica. Forse suona datato, ma in realtà è management, dove le rimanenze di un processo diventano lo spunto di un altro. Ovviamente ciò richiede tempo e spesso pensiamo di non averne, ma va a discapito di salute e portafoglio.

Consideriamo le donne che lavoravano nelle fabbriche, durante la guerra, 12 ore al giorno. Scommetto che non buttavano nulla. Oltre alla mancanza di tempo ed economia domestica, penso ad un fattore anche psicologico, legato all’abbondanza di cibo economico, nonostante la crisi.

Alla radice dello spreco vi sono fattori psicologici, demografici, economici, culturali. Il senso di abbondanza ha un ruolo chiave. Non bisogna mai dimenticare che il cibo spesso è troppo a buon mercato nei paesi occidentali. Questo significa sempre che il prezzo lo sta pagando qualcun altro.

Ad esempio, lo sfruttamento umano, nel settore italiano dei pomodoro, mantiene prezzi artificiosamente bassi e margini sufficienti.

Esatto. Il Brexit farà aumentare il prezzo del cibo in Gran Bretagna. La produzione di massa implica inoltre meno principi nutritivi, inquinamento, dispersione e sovrapproduzione.

E se la “catena” fosse in realtà un ciclo? Il movimento lineare di crescita perpetua può esistere in un ciclo?

Sono d’accordo che “ciclo” sia una scelta semantica più appropriata. Il “modello standard” moderno occidentale è lineare e crescente, e di certo non naturale all’interno di un ciclo. Lo spreco è insito. Ad ogni passaggio, e più passaggi ci sono maggiore è il valore aggiunto, c’è un attore che aggiunge calorie perché deve crescere il fatturato e la produzione, pensando solo a se stesso. Queste vengono infine spinte aggressivamente verso la fine della “catena”, i consumatori; ma non ci fa bene; siamo esseri finiti, che si ammalano.

Ho sentito dire che lo spreco di cibo sia fisiologico. In realtà se un cibo non viene mangiato rimane escluso dal ciclo. In quel senso, anche, è sprecato. Questo vale anche per quelle verdure che non marciscono mai – se i batteri le evitano, meglio fare altrettanto. Il cibo naturale richiede più cure ma dà in cambio nutrimento genuino.

Se il modello non cambia radicalmente a monte, le piattaforme per la condivisione del cibo continueranno a ritrovarsi con le fragole a Natale. Quali passi compiere nel mondo esterno e in quello interiore per un cambio sistemico?

Il cambiamento prima di tutto deve avvenire internamente nell’individuo. Dopodiché, ognuno di noi ha molteplici ruoli – consumatore, lavoratore, studente, figlio, cittadino – e inclinazioni nella vita, e può scegliere di agire coerentemente. Deve essere una rivoluzione di sistema alla cui base sta la riscoperta del valore intrinseco del cibo. C’è una tendenza a concentrarsi sugli anelli finali della “catena” (consumatori e vendita al dettaglio), ma essi spingeranno la pressione su qualcun altro o finiranno per assumersi tutte le responsabilità, mentre invece bisogna agire ovunque.

Il cibo è sempre stato considerato sacro, fino a ieri. Credo che si tratti di un grave frattura, i cui frutti si vedranno solo col tempo, che ne pensi?

Il cibo era sacro e da sempre usato nei sacrifici (2). Ma il senso di abbondanza e il nostro scarso coinvolgimento nella sua produzione hanno causato un divorzio intimo con ripercussioni complesse.

Le ultime generazioni soffrono se non superano l’abbondanza materiale dei genitori. Perdere, rinunciare e invecchiare le terrorizzano. Io credo che queste paure e lo spreco di cibo siano collegati, nella misura in cui sprecare cibo rinforza l’illusione di abbondanza e dunque controllo.

Sono d’accordo. Mi viene in mente un vigneto d’eccellenza in Piemonte, dove parte del raccolto era lasciata agli uccelli. In quel caso il cibo veniva sacrificato e rimaneva nel ciclo. Fin dall’era mitologica alle grandi religioni, l’umanità era integrata ai cicli di perdita e rigenerazione che ora spaventano e confondono.

Prima mi dicevi che vedi il cibo come una rete interconnessa ad ambiti anche molto diversi tra loro, che tuttavia sono regolati dallo stesso modello lineare. Per cambiarlo in toto, il cibo sembra un punto di partenza accessibile e nevralgico.

Il cibo influenza grandemente i nostri comportamenti e la nostra visione, non solo la nostra salute, nella misura in cui prendiamo consapevolezza del suo valore intrinseco. Essendo esseri finiti meglio stabilire delle priorità e poi dedicarci il tempo necessario. Rinunciare a qualcosa per ottenere nuovi benefici più significativi.

 

Note

1. Anke Klitzing è Assistant Lecturer in Culinary Arts, e candidata PhD alla Technical University of Dublin. Ha lavorato come responsabile comunicazione e pubbliche relazioni presso Slow Food Germany e ha esperienza manageriale nella ristorazione internazionale d’alta gamma. Ha studiato Letteratura inglese e Sociologia in Irlanda per poi specializzarsi in cultura e comunicazione del cibo all’Università di Scienze Gastromiche a Pollenzo, Italia.
2. Sacrificio, dal lat. sacer facer, rendere sacro (N.d.R.)

Articolo di Anna pubblicato su http://www.italiachecambia.org/2016/10/radice-spreco-alimentare/

 

Photo: JJ Jordan on Unsplash